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LUIGI MARTIN E ZELIA GUÉRIN

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Dopo la beatificazione dei coniugi Luigi e Maria Beltrame Quattrocchi, una seconda coppia è stata riconosciuta ufficialmente dalla chiesa, come esempio di santità, il 19 ottobre scorso a Lisieux: Luigi Martin e Zelia Guérin, meglio conosciuti come i genitori di S. Teresa di Gesù Bambino.
Cerchiamo di conoscerli meglio, di addentrarci nell’intimità della loro casa, in punta di piedi, cercando di evitare i canoni di una certa “agiografia” che vuole i santi tutti impostati in un certo modo, quasi predestinati fin dalla nascita ad abbracciare uno stile di vita fuori dall’ordinario, come guidati da una forza superiore ad essere “diversi” e “speciali” agli occhi del mondo. Non crediamo a questo tipo di santità; non pensiamo che un legame forte con il Padre sia il risultato di una “elezione” divina, come se l’Amore di Dio potesse subire le stesse limitazioni che troppo spesso operiamo nelle nostre scelte di relazione. Crediamo nella capacità di ogni essere umano di sentire il canto dell’Amore, la voce della vita risuonare nella propria interiorità; crediamo nella libertà di ognuno di decidere come e quando seguire il richiamo di chi, Amico fedele, attende quell’Abbraccio senza fine che trasforma l’esistenza in un essere guardato, sostenuto, amato nel guardare, nel sostenere, nell’amare.
Luigi Martin nasce a Bordeaux il 22 agosto 1823; Zelia Guérin, invece, nasce il 23 dicembre 1831 a Gandelain. Sappiamo che entrambi, ad un certo momento della loro vita desiderano la vita religiosa: Luigi è affascinato dall’eremo del Gran San Bernardo, Zelia dalla comunità delle suore di san Vincenzo de’ Paoli. Luigi è messo alla porta da una mancata conoscenza del latino, Zelia dalla superiora del chiostro che non vede in questa scelta la volontà di Dio. Sta di fatto che entrambi tornano sconsolati nella loro rispettiva casa, ad Alençon, in attesa che gli eventi li guidi per un percorso di pienezza. Ad un certo punto capita che si conoscano e si innamorino l’uno dell’altra; il matrimonio è celebrato il 13 luglio 1858: ci sono tutti i presupposti di una scelta “infelice”, quasi un tentativo di stravolgere il senso di una unione affettiva per trasformarla in un surrogato di comunità monastica. Giacché sappiamo che quell’ideale originario di vita ascetica è custodito gelosamente nel cuore di entrambi. Subito dopo la cerimonia matrimoniale, i due sposi si recano in visita al monastero della Visitazione a Le Mans per domandare sostegno alla sorella di Zelia, suor Maria Dositea, sua amica fedele e confidente ineguagliabile. Zelia racconterà di questo incontro, più tardi, alla figlia Paolina: “…posso dire che quel giorno lì ho pianto tutte le mie lacrime, più di quanto avessi mai pianto in vita mia e più di quanto piangerò mai; quella povera sorella non sapeva come consolarmi. Non è che provassi dispiacere a vederla là, ma avrei voluto esserci anch’io; paragonavo la mia vita alla sua e le lacrime raddoppiavano. Insomma, per molto tempo la mia anima ed il mio cuore sono stati alla Visitazione; venivo spesso a vedere mia sorella e là respiravo una calma ed una pace che non saprei esprimere. Quando tornavo via mi sentivo molto infelice di essere in mezzo al mondo; avrei voluto nascondere la mia vita insieme con la sua. Tu che ami tanto tuo padre, mia Paolina, penserai che gli recassi dispiacere e che gliene abbia arrecato il giorno del suo matrimonio. Ma no, egli mi comprendeva e mi consolava del suo meglio, poiché aveva gusti simili ai miei” (lettera del 4 marzo 1877).
Rinunciano, così, per dieci mesi, al dono totale di sé all’altro nell’unione intima dei corpi. Solo l’intervento di un confessore fa cadere l’ultima barriera che impedisce loro di abbracciare in pienezza l’Amore che li aveva avvolti in un disegno di vita in comune. Nascono nove figli, di cui quattro morti prematuramente.
Nel leggere gli scritti biografici di questa coppia si incontra, con molta facilità, la descrizione di uno stile di vita cristiana “ineccepibile”, impregnata di dedizione totale alla famiglia, di atti caritatevoli incisivi, di sobrietà nelle scelte quotidiane, di attaccamento alle pratiche religiose in casa e in parrocchia. Non dubitiamo che le cose siano andate effettivamente in questo modo; ma ciò che ci interessa sottolineare maggiormente, poiché è ciò che può fare da faro a chi si addentra nella loro casa, è la testimonianza umana di una coppia che affronta lo sgranarsi degli eventi con quella fedeltà che fa guardare ogni giorno le stesse cose, ripetere gli stessi gesti, ascoltare la stessa voce, dire le stesse parole, come se tutto fosse nuovo, perché lo è realmente! Una vita ricevuta dalle mani del Padre e sostenuta dalla sua tenera Presenza conduce Luigi e Zelia per un sentiero sicuro, dove non si è lasciati mai soli. Zelia scrive alla cognata: “Vedo, mia cara sorella, che attende di nuovo un bambino; mi preoccupo per la sua salute, ma infine Dio non carica nessuno al di sopra delle sue forze. Ho visto tante volte mio marito preoccuparsi a questo riguardo per me che invece restavo tranquillissima e gli dicevo: ‘Non avere paura, il buon Dio è con noi’. Eppure ero sovraccarica di lavoro e di pensieri di ogni specie, ma avevo questa ferma fiducia di essere sostenuta dall’alto” (lettera del 5 maggio 1871).
Giunge presto il tempo della dura lotta con la malattia: Zelia riceve i primi segnali del suo male nel 1865, un semplice adenoma al seno che undici anni più tardi si sarebbe trasformato in tumore fibroso: “Il buon Dio mi fa la grazia di non spaventarmi; sono tranquillissima, mi sento quasi felice, non cambierei la mia sorte con nessun’altra. Se il buon Dio mi vuole guarire, sarò contentissima, perché in fondo desidero vivere: mi duole lasciare mio marito e le mie figliole. Ma d’altra parte mi dico: ‘Se non guarirò è forse perché per loro sarà più utile che io me ne vada’…” (lettera del 20 febbraio 1877); “…non ho molti motivi di rallegrarmi nel vedere il tempo affrettarsi, ma sono come i bambini che non si preoccupano del domani: aspetto sempre la felicità” (lettera del 31 dicembre 1876).
Zelia muore il 28 agosto 1877. Teresa la ricorderà in una sua poesia: “Della mamma amavo quel sorriso / e lo sguardo profondo che diceva: / “L’Eternità m’affascina e m’attrae. / Io presto andrò a veder nel Cielo azzurro / il mio Dio!’ “ (P 18).
Resta un uomo solo con le sue cinque figlie, delle quali la più piccola, Teresa, ha solo quattro anni e mezzo. Decide di trasferirsi a Lisieux dove vive suo cognato con la sua famiglia: forse un tentativo di offrire alle figlie un sostegno maggiore di quanto si sentisse in grado di dare lui stesso, un bisogno di fasciare lo squarcio provocato dall’essere privati di un volto che riscaldava con quel fuoco bruciante dell’Amore che custodiva nella sua carne. Sappiamo quanto questa morte costò soprattutto a Teresa, la più piccola, la più fragile, la più disarmata di fronte ad un evento che le chiedeva il sacrificio della “rinuncia” a quella presenza! Luigi “tende una corda” alle sue figlie, le lega fortemente a sé senza spezzarne il capo, che rimane ancorato a chi si trova più avanti nel cammino: quasi un “tirare” che desidera abbandonarsi ad un “essere tirati” tutti insieme. “Non vivo che di ricordi. Questi ricordi di tutta la mia vita sono così dolci che, malgrado le prove attraversate, vi sono dei momenti in cui il mio cuore sovrabbonda di gioia… Ultimamente, ti ho parlato delle miei cinque figlie, ma ho dimenticato di dirti che ho pure quattro bambini che sono con la loro santa madre, lassù, dove noi speriamo di andare a raggiungerli un giorno!” (lettera ad un amico del 1883).
Tutte le figlie, una dopo l’altra, manifestano il loro desiderio al padre, un desiderio che le accomuna, pur nella diversità dei loro vissuti interiori: quattro di loro sceglieranno il Carmelo come dimora terrena, l’altra, Leonia, in maniera più sofferta, deciderà di proseguire il suo cammino nel convento della Visitazione. Di fronte all’ultimo distacco, quello da Celina, la quale attenderà la morte del padre prima di varcare la soglia del Carmelo di Lisieux, Luigi, tra un misto di sofferenza e di gioia esclama: “Vieni, andiamo insieme davanti al SS. Sacramento a ringraziare il Signore delle grazie che accorda alla nostra famiglia e dell’onore che mi fa di scegliersi le spose nella mia casa”.
Gli ultimi anni di vita di Luigi diventano il banco di prova per l’intera famiglia chiamata, questa volta, a riconoscere il Volto dell’Amore attraverso il volto sfigurato di un padre completamente trasformato dall’arteriosclerosi. Luigi, intorno ai sessantaquattro anni, inizia a manifestare fenomeni di amnesia, di allucinazioni, di idee fisse sempre più incidenti tanto da condurlo ad uno stato di disordine mentale che gli fa compiere gesti (tra i quali allontanamenti improvvisi da casa) che contrastano con il suo cuore amabile. Tanto diviene ingestibile che si è costretti ad un ricovero nella casa di cura per malattie mentali a Caen: potrà ritornare nel calore della sua casa solo dopo tre anni, quando una paralisi invalidante agli arti inferiori gli impedisce ogni forma di “fuga”.
Luigi muore il 29 luglio 1894.
In un giorno qualunque del 1915, le quattro sorelle unite nel Carmelo colgono, come in un flash, il senso della loro storia. Lasciamo parlare, questa volta, la figlia Maria: “Eravamo sedute tutte e quattro sulla gradinata, vicino all’infermeria. Il cielo era azzurro e senza nubi. Improvvisamente il tempo è scomparso per noi: la nostra infanzia, i “Buissonnets”, tutto ci è sembrato un istante. Vedevo Leonia religiosa, accanto a noi! E il passato e il presente si confondevano in un momento unico: il passato mi pareva un baleno; avevo l’impressione di vivere già in un eterno presente, e ho compreso l’eternità, che è tutta intera in un solo istante”.
Perché santi? Semplicemente perché hanno accolto la vita così come veniva offerta loro, con la fiducia di chi sa di essere insieme tenuti per mano, con la tensione di chi ha bisogno di tenere l’orecchio teso ad ascoltare quella Voce che rincuora e sostiene, con la certezza di chi scopre di camminare con l’Amico al proprio fianco.
Ci viene da pensare che, in duemila anni di cattolicesimo, avere solo due esempi di coppia riconosciuti ufficialmente, sia una magra consolazione di fronte alla schiera sterminata di religiosi/e, di consacrati/e che riempiono i nostri calendari. Sarà forse che la verginità è un requisito fondamentale per amare Dio? Sarà forse che il volto della persona amata è un elemento di distrazione? O sarà forse che troppi pregiudizi sui laici continuano a condizionare certe vedute di campo?
Siamo certi che il cuore del Padre abbia una contenenza di gran lunga maggiore di quella manifestata da una qualunque istituzione che deve fare i conti anche con i limiti umani.
MARIA CONCETTA BOMBA ocds

(Il Castello dell’anima, 31.10.08)

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